Pizzo Camarda

La vetta più panoramica dell'Appennino,insuperabile in inverno.


Il Pizzo Camarda è sempre stato nei miei ricordi come una delle più belle cime raggiunte, di rimpetto alle più maestose vette del Gran Sasso è un balcone privilegiato nel cuore del gruppo, l’orizzonte verso Nord si allunga fino alla Laga, al lago di Campotosto è al Terminillo, per non parlare della bella croce posta sul ciglio di una parete che cala verticale verso la valle delle Solagne. Quando iniziai a progettare una uscita per il primo giorno del 2018 il Camarda è stata la prima montagna che mi rimbalzava in testa; ho rivisto un sacco di volte il progetto, altre cime si sono alternate, il Deta, il Velino, fino alla sera prima non ero ancora sicuro poi alla fine la prima idea ha preso il sopravvento sulle altre ed il Camarda è rimasto. Ho dovuto anticipare di un giorno la data per una questione metereologica, non ho potuto iniziare l’anno come volevo, in compenso ho chiuso il vecchio nel migliore dei modi, con una escursione sontuosa in una giornata che dire luminosissima è poco. Sono solo, ho tutto il tempo, il mio tempo, parto con comodo da casa; arrivo alla sbarra sulla strada che da Assergi gira intorno al gruppo del Gran Sasso verso san Pietro allo Ienca e verso il passo delle Cappannelle ed ovviamente è chiusa, lo avevo messo in conto; da sempre si può aggirare, anche oggi una sterrata intorno alla sbarra permette di scavalcare il divieto ma è disconnessa da paura, sono solo e non mi arrischio a rimanere impantanato, parcheggio e mi avvio, un’occhiata veloce alla meta che è là davanti appuntita e coperta da una coltre di neve all’apparenza compatta e chissà se ghiacciata. Avevo messo in conto che avrei dovuto fare un paio di chilometri di avvicinamento prima di attaccare per la sterrata che sale allo stazzo delle Veci e così è stato; da poco il sole ha fatto capolino da sopra il monte Cristo ed insieme all’assenza di vento offre quella giusta temperatura per prendere di petto la lunga camminata; la strada è leggermente coperta di neve e ghiaccio, la salita è leggera, quella giusta per scaldare i motori, peccato il ghiaccio infido a terra non permetta di godere della suggestione del momento e delle lunghe ombre che regalano belle immagini, è un gioco di equilibrio proseguire. Due chilometri sono lunghi quando sai che sono un banale avvicinamento, ammiro le coste rocciose che scendono dal Cefalone e da Punta Giovanni Paolo II e la miriade di canalini che con la fantasia seguo fino in cima come ipotetiche vie di salita, mi soffermo anche sul sinuoso viadotto dell’autostrada che come un serpente sospeso oltrepassa Assergi e conduce l’occhio, come un’inevitabile continuazione dell’orizzonte, verso i muraglioni dell’Ocre e del Sirente e la sottostante piana dell’Aquila ancora sommersa da una densa coltre nebbiosa. In questo stato di benessere, assente da ogni pensiero, cerco ogni tanto l’imbocco per la stradina che sale verso lo stazzo, il versante che scende dalle Malecoste è innevato fino alla strada, anzi tutte le montagne intorno sono innevate, sul ciglio lo spazzaneve ha accumulato una cunetta discretamente alta dovrò prestare attenzione per non mancare l’imbocco. La mia intenzione non era seguire la strada che sale allo stazzo, mi sarei fatto troppo sotto la verticale del Camarda, dall’imbocco della sterrata volevo iniziare a salire per continuare con delle linee che avrei scelto sul momento, mi rifacevo insomma a quello che più o meno doveva essere il sentiero che saliva alle Malecoste, anche se dubitavo molto di poterlo riconoscere sotto l’alto manto nevoso. Dopo il paio di chilometri previsti è stato un cartello stradale che mi ha messo sull’avviso, indicava l’innesto da destra di una strada secondaria, dal momento che i cartelli vengono posti circa centocinquanta metri prima dell’incrocio dovevo essere nei paraggi. L’imbocco della stradina è evidente, mantengo fede al mio progetto e subito dopo averla presa, quando inizia a tendere verso Nord, mi fermo per perlustrare il versante fino alla cresta, un fosso che scende dall’alto sfiora la grossa formazione rocciosa a mezza costa, offre una dorsale sulla sua sinistra che traversa il pendio con una pendenza non troppo eccessiva ma costante, qualche zig zag repentino per salire di quota e mi troverei sopra un piccolo sperone roccioso e da lì per piccole roccette che sporgono dalla neve e che assicurano di certo stabilità del manto nevoso mi porterei qualche centinaio di metri sotto la cresta. Più o meno la traccia era nella mia testa, evitavo grossi pendi e a vederla da qui anche grossi cumuli nevosi; già, dal basso alla fine sono solo illazioni, ragionate ma illazioni pure, non rimaneva che iniziare a salire per verificare la bontà di quella sommaria perlustrazione. Prendo verso destra come a tornare indietro per poter sfruttare una apertura nella confusa vegetazione della fascia bassa del versante e per incrociare dal basso la dorsale che sfila accanto al fosso; inizio a salire lentamente, la neve affonda e i passi sono lenti, aumenta anche il pendio e ben presto tra neve che affonda e la salita che si inizia a far sentire sale il fiatone, non rimane che rallentare e adeguare il passo. Lento ma salgo, buttando un occhio avanti per scegliere la linea di salita migliore e il nuovo punto di arrivo. Sistematicamente i traguardi che mi pongo non li raggiungo mai, li supero sempre allettato da nuove linee che scorgo salendo. Grosso modo sono sul percorso che mi ero prefissato dal basso, ogni tanto qualche timido ometto mi dice che sono sul sentiero, a tratti lo abbandono poi mi ci ritrovo di nuovo, salto la formazione rocciosa che avevo deciso di raggiungere, approdo circa cento metri sopra su un altro sperone che forse per una questione di prospettive non vedevo da basso; proteso verso valle è scoperto da neve, lo uso come base per fermarmi e fare sosta, mangio qualcosa e ne approfitto per indossare i ramponi, ormai sono intorno a quota 1600, meglio aggiustarsi e prepararsi all’asciutto che su un tratto ripido e innevato. Sopra di me un centinaio di metri, forse più, un tratto di roccette e qualche pezzo scoperto, devo salire lì in mezzo per guadagnare quota in sicurezza; si dimostra un po' ripido ma è sicuro come me lo aspettavo. E’ mentre salgo lì in mezzo, a destra ho il vallone che scende dalla sella delle Malecoste ed oltre il fosso la grossa formazione rocciosa che ammiravo dal basso; mi scappa davanti un bell’esemplare di camoscio. Chissà da quanto mi stava osservando, lo stesso tempo che per me era una presenza invisibile immagino, avevo evidentemente oltrepassato la linea immaginaria oltre la quale diventavo un intruso. Qualche foto al suo di dietro, non saranno esattamente foto artistiche ma almeno testimonieranno un incontro fugace non ero solo su questo infinito fianco della montagna. Imprecando in preda all’affanno continuo a salire insieme al pendio che si fa via via più accentuato; rifletto che è normale dal momento che mi sto avvicinando alla cresta e le pendenze si alzano, ma serve a niente, impreco lo stesso contro me stesso; sale davvero troppo il pendio però, non accenna a diminuire, mi guardo intorno e decido sul momento di traversare, devo attenuare la salta, d’altra parte era quello che avevo previsto da sotto, ad un certo punto procedere a vista secondo quelle che erano le scelte migliori del momento. Taglio verso il vallone che scende dalla sella su in alto, sarei andato incontro ad un altro traverso per virare dalla parte opposta pieno zeppo di roccette e sicuri passaggi. Cercando il punto giusto per traversare incrocio di nuovo la traccia del sentiero, la seguo con lo sguardo cercando di capire il suo profilo, ma con tutta quella neve dopo dieci metri lo perdo di nuovo; buttando lo sguardo avanti però scorgo su una roccia in placido stravaccamento un altro camoscio, forse quello di prima. Si desta dal torpore mi vede all’istante, si drizza imperioso e rimane impietrito per un po' a guardarmi, con quell’aria a metà tra il curioso e quella che ti sta mandando a quel paese, ce l’ho a una cinquantina di metri, mi da il tempo di fotografarlo stavolta, e credo che con lo zoom che ho montato riesca ad ottenere davvero delle belle immagini. Scappa verso l’alto, scappa con una andatura da fuga manco mi avesse visto armeggiare con un fucile. E’ in quel momento, mentre osservo la sua fuga senza senso che scorgo con la coda dell’occhio dei rapidi movimenti arrivare dal basso, dal fosso, si confondono con le pietre e con gli sparuti aridi speroni asciutti; un branco di camosci, forse una trentina salgono veloci alla rinfusa, nella stessa direzione del solitario che intuisco essere il capo branco. E chi se li sfa fuggire, sono nella posizione ideale un po' in alto sopra di loro, li osservo rapito da tanta agilità nella neve alta e do mano alla macchina fotografica, spero davvero di portarmi a casa delle belle immagini. Prima larghi dentro il vallone, poi tagliano verso Nord sopra di me, spariscono nel giro di pochi minuti, non mi rimane che ripartire; valuto se raggiungere la cresta, sono tentato per un po', ci saranno circa due o trecento metri di salita ripida, mi attira il panorama che scoprirei dall’altra parte ma desisto dalle fantasie, preferisco salire lento e traversare, confesso, la stanchezza comincia a farsi sentire; avrei quasi preferito un pendio ghiacciato su cui arpionare i ramponi piuttosto che questo continuo lento sprofondare. Prossima meta quel pino solitario, mi detta la traiettoria, un traverso in continua leggera salita, lo supero, il pendio che mi fa da orizzonte è ripido, una dorsale scende dall’alto e mi impedisce ogni altra visuale se non l’indefinita cresta, forse una cima su in alto, credo di essere sotto l’anticima NO delle Malecoste; da qual taglio obliquo e bianco di forse 45 gradi che definisce l’orizzonte luminoso si esalta il profilo del Terminillo, bello come una montagna davvero importante con tutti i suoi canaloni scolpiti e ben evidenti. Mi do obiettivi sempre più vicini, sembrano più abbordabili e adatti alla mia stanchezza che sale di passo in passo, la prossima roccia, proprio sopra quella dorsale, la raggiungo, la supero e finalmente si scopre la meta, quella guglia diritta del Camarda, giustamente definito Pizzo. Porca miseria però, è la davanti a forse meno di un chilometro, certamente meno, ma mi sembra un’impresa raggiugerlo, solo un lungo traverso a dividermi, ma in salita, pensavo di essere più in alto, forse avevo semplicemente sottovalutato la sua altezza che supera abbondantemente i 2300 mt. Non ho scelta, devo continuare con la massima concentrazione però! Il traverso è facile ma è la pendenza ad essere davvero eccessiva, è vietato scivolare, rifletto e mi rinfranco, la neve è molle è compatta, non bagnata ma anche se sprofonda è bella compatta, non credo ci siano i presupposti perché possa staccarsi qualche lastrone e portarmi con se; riflessioni che durano un attimo, le considerazioni logiche hanno il loro perché ma è l’imponderabile che sta sempre in agguato e in fondo tutti noi che amiamo queste “passeggiate” lo temiamo e lo teniamo sempre in conto nelle spire recondite della nostra ragione. Durano un attimo queste riflessioni per fortuna. Riprendo, un passo alla volta, anche lenti vista la stanchezza, un passo, la piccozza ad assicurare, un altro passo, ogni volta si affonda porca miseria, solo fatica in più, e via così a ripetere all’infinito l’inevitabile serie di passi per avvicinarsi alla meta. Salgo di quota, spero nel mio cuore di trovare crosta o ghiaccio, macchè peggiora, ora oltre che affondare si forma anche uno spesso zoccolo sotto i ramponi, così si fa pericoloso porca puttana. Ancora più lento, ad ogni passo prima del successivo un colpo a far crollare lo zoccolo formato, ancora più fatica sotto un sole che si fa cannibale nel frattempo. Mi scoraggio un po' non lo nego, lo sforzo si fa fatica pura, conto gli intervalli dei passi, venti e passi e riposo, per un po', poi i passi di fila diventano dieci ed il Pizzo laggiù dopo mezz’ora sembra essersi avvicinato di niente. Riprendo il gioco degli obiettivi successivi, forse mi son fatto abbagliare dalla vetta ma non funziona, impiego più di un’ora per fare meno di un chilometro. Mi siedo stremato, non riesco nemmeno a gustarmi l’immenso panorama che ho tutto intorno, riprendo fiato, bevo bevo bevo nemmeno stessi per raggiungere la vetta del K2, mi interrogo su tanta stanchezza, possibile mi sia ridotto così fuori forma, mille sono le domande, non mi va di azzardare risposte affrettate, mi rimane molta amarezza e delusione. Mi giro verso la vetta, la minaccio, tanto non scappa, è solo questione di tempo, non più tanto mia auguro senza dirlo; riparto sempre lento, una decina di passi e mi riposo, raggiungo la roccia che mi ero dato come obiettivo, ora la prossima che sporge là, dopo non rimane che la cima e quel muro (così mi pare nello stato in cui sono) per raggiungerla. Raggiungo la roccia che mi ero dato come traguardo, una volta lì sarebbe stata cosa fatta pensavo, macchè, le misure e i tempi che ero in grado di leggere erano starati, la cima del Pizzo mi sembrava sempre lontana, mi schernivo ripensando a Troisi, ci parlavo con quella cima, perché non mi veniva incontro, che gli costava? Lento lento, lentissimo e con una stanchezza incomprensibile davvero, alla fine ci sono arrivato al centro del vallone che anticipa il muro sotto la cima, l’esperienza mi diceva che c’ero, che si trattava di minuti ed invece è stata una battaglia, ancora una battaglia, con lo zoccolo che continuava a formarsi sotto i ramponi, con la neve che continuava a cedere e ad arrivarmi alle ginocchia, con il pendio che prendeva a salire ripido e fin troppo verticale per il mio stato. Ho richiesto a me stesso un supplemento di concentrazione, la stanchezza non doveva condurmi a fare “cazzate”, lento quanto vuoi mi son detto ma con sicurezza. Non so come, sputando sangue ma mai urlando improperi verso quella montagna, sono arrivato ad un passo dalla cresta, non so perché mi son voltato prima di salirci sopra, Dio ha voluto che lo facessi, si è allargato il cuore, “CAZZO” ho esclamato, “CHE ROBA” forse ho detto a voce alta, poco sulla destra precipitava la valle sottostante che anticipa quella delle Solagne, ma a disegnare un quadro perfetto era l’arco meraviglioso della sella delle Malecoste e la ripida parete che sprofondava verticale, sull’arco della sella un susseguirsi di guglie, vette, colossi, i più belli dell’Appennino. Ecco perché ero lì, ecco perché valeva fare tanto sforzo; per un attimo tutto si è fatto leggero, poi il lungo pendio che avevo sotto i piedi e soprattutto l’impegno che i due passi successivi avrebbero richiesto mi hanno riportato alla realtà. Ricordavo male, raggiunta la cresta non ero ancora in vetta, da superare prima di arrivare in cima ancora un paio di formazioni rocciose e degli insidiosi traversi di infidi e ripidissimi pendii che davano sulla parte opposta; oh intendiamoci, niente di che per chi sta bene ed è in forma, per me che ero sull’orlo della crisi di nervi ancora una montagna nella montagna. Ho cavato dal profondo delle mie riserve le ultime energie, le rocce hanno fornito appigli, ero sopra, ho traversato per una ventina di metri scrollandomi ad ogni passo l’insopportabile zoccolo che non mi abbandonava (alla faccia dei ramponi ultima generazione!), prima di intravedere la croce. Nell’ultimo chilometro ho triplicato i tempi forse, ero arrivato stremato quasi coi crampi, ma ce l’avevo fatta, c’ero, ero in vetta, ci son volute la bellezza di cinque ore e mezza ma ora mi potevo rilassare, potevo gioire e cogliere tutto ciò che non avevo potuto godere nell’avvicinamento. Il tempo di riprendere fiato e poi è stato come se il sangue insieme alla razionalità e alla capacità di trattenere immagini ed emozioni tornassero a far parte delle mie facoltà. Si è materializzato nei dettagli quello che non esito a definire uno degli angoli di montagna più belli del nostro Appennino. Favorito da una luce e da una chiarezza degli orizzonti come poche volte non c’era che da posare gli occhi su qualcosa, mille erano i dettagli, qualunque elenco o descrizione facessi sarebbe solo una sterile lista. Ed lo disse, bisogna esserci in questi posti per capire. Ai colossi del Gran Sasso, quasi tutti, li davanti a formare un ambiente di alta montagna unico al centro Italia, al Corvo, all’intermesoli, al Corno Grande, alla cima delle Malecoste fanno eco a Sud e Sud Est i lontani muraglioni della Majella, del Sirente e dell’Ocre. A Nord la lunga cresta continua sullo Ienca e sul San Franco ed accompagna l’orizzonte verso il Terminillo, verso il Nuria, verso il piccolo gioiello del minuto gruppo del Pozzoni, verso la Laga un po' più a Nord Est e nel mezzo verso quel turchese incastonato nel mare di bianco, il lago di Campotosto, per molti tratti ghiacciato. In lontananza, la coltre di nubi anticipa la perturbazione che sta per arrivare e gioca a far svettare le cime minori come tante isole in un mare tempestoso. Ho un rapporto speciale col Pizzo Camarda, così la ricordavo questa cima, c’ero stato sempre in condizioni invernali anche se allora la quota neve iniziava intorno ai 1600 mt. ed anche allora le condizioni erano simili, credo sia la vetta col panorama più bello di tutte, ora che ci sono tornato ne sono più che mai convinto. Forse per la stanchezza ho comincatoo a sentire il freddo vento che spirava da Nord e che una volta superata la cresta mi ha investito, mi attardo a scattare qualche foto, la razionalità mi aiuta a non subire la tentazione di sporgermi, temo ci siano grosse cornici sul lato che scende verticale, mi attardo ancora per cercare di trattenere il più possibile di quello che vedo, confesso è davvero emozionante dopo tanta fatica essere ripagati con così tanto. Mi attardo ancora non vorrei partire poi devo, e decido di variare sul momento la linea della discesa, per evitare l’instabile cresta che avevo salito poco prima mi butto sul versante opposto verso lo Ienca, seguo dei paletti ben evidenti e piantati con sapienza, ben lontani dal bordo di cresta, scendo di traverso, è insidioso ma si affonda e passo dopo passo diminuisce anche la pendenza, raggiungo il centro del vallone, per un attimo rimpiango gli sci che non posseggo, con quelli sarebbe una questione di minuti la discesa. L’enorme imbuto che scende verso lo Iaccio di San Pietro è profondo e immacolato, lo prendo al centro, si sprofonda molto ma complice la pendenza scendo veloce, la stanchezza quasi è sparita, un mio amico direbbe che è cosa normale, in discesa anche i cocomeri vanno bene; quando la pendenza diminuisce affondo e basta e faccio fatica a continuare, improvvisamente le gambe si rifanno dure, che palle sta fatica insolita di oggi, per giunta alle quote più basse e senza più vento il sole diventa famelico. Ricomincio ad essere lunatico e scostante, come i bambini sogno di arrivare, anzi di più sogno il divano di casa. Esco, basta, ora si affonda solo dentro il vallone, mi tolgo i ramponi, mangio qualcosa e bevo, bevo e ribevo, strano anche questo per me che solitamente bevo davvero poco. Quando riparto prendo a tagliare la dorsale che scende dal Pizzo Camarda, è ampiamente scoperta e finalmente appoggio i piedi su duro, ma dura poco, ricompare la neve, tra cespugli di bassi ginepri e il terreno che non si percepisce, rischio di scivolare ogni una per due se va bene e di prendere una storta se va male, devo necessariamente rallentare, la strada giù in basso rimane un miraggio. Per fortuna intercetto la sterrata che viene dallo stazzo delle Veci, è parzialmente coperta di neve ma mi sembra un tappeto, scende con una pendenza agile, il fondo è regolare, come è bello camminare ora. Scende parallela alla strada giù sotto, perde quota lentamente e sono certo mi porterà a chiudere l’anello esattamente dove mi sono staccato dalla strada principale quasi sette ore prima. Così è stato, non rimaneva da fare i due chilometri di strada asfaltata fino alla macchina. Inutile dire che dopo pochi minuti è diventata insopportabile anche quella fettuccia agevole, camminavo veloce ma il risultato era sempre lo stesso, dietro ogni curva la sbarra non c’era mai. Poi, alla fine, molto alla fine, è comparsa, erano le 16 del pomeriggio, esattamente otto ore dopo essere partito. Sei ore di salita o poco meno e solo due, due sole per la discesa, non mi chiamate escursionista, chiamatemi cocomero!!! Però che bello Pizzo Camarda, ripartiamo?